Già il titolo di questo scritto di Wells porta con sé due grandi tematiche dell’epoca tardo Ottocentesca:
- Il PAESE completamente segregato dal mondo, contrapposto alla CITTà moderna, in cui la tecnologia aveva permesso una comunicazione non solo rapida, ma anche a distanza (tele-comunicazione)
- La CECITà, contrapposta all’ossessione moderna per la VISIONE PANOPTICA, totale.
Le città, diventate grandi metropoli sovrappopolate,
presentavano il nuovo problema dell’illeggibilità, che il positivismo provava a
decodificare anche (e soprattutto) grazie alla tecnica, nel tentativo di una
“testualizzazione” totale del mondo.
Se la fisiognomica e la successiva Antropologia Criminale
fornivano delle basi sulle quali etichettare tutto ciò che ci circonda, le
nuove scoperte tecnologiche ne assicuravano un completo controllo, fornendone
una mappatura sempre disponibile che non fece altro che alimentare l’utopia
ottimista dell’onnipotenza umana, la quale, tramite la scienza, poteva essere
in grado di risolvere qualsiasi problema.
Ma quando, come accade nel racconto di Wells, ci si
ritrova in un mondo “alieno” (sebbene dietro l’angolo e umano) sono le
fondamenta stesse a far tremare il palazzo delle sicurezze positiviste.
Il problema sta a monte, è un problema ONTOLOGICO: ciò
che per il protagonista è, per i ciechi NON è, e viceversa.
E questo è un punto fondamentale, che resta irrisolto
fino al finale (e oltre), nel quale ci si continua a domandare: “Chi fra loro è
cieco?”
Il racconto rimanda ad una serie di tematiche
strettamente correlate non solo al progetto di ‘visione panoptica’
ottocentesco, ma anche al suo alleato concetto di ‘potere’: potere di
influenzare, suggestionare, controllare le masse. Ciò che vedo, che sento ed
amo, è ciò che IO provo o è ciò che una cultura, una tradizione alle mie
spalle, ha voluto e costruito per me? Tutto ciò in cui credo, la percezione di
ciò che è bello, il gusto, sono MIE sensazioni?
C’è un momento in cui anche Nuñez, il protagonista
“vedente” del racconto, se lo chiede. Per un attimo dubita di tutte le sue
certezze, guardando il coperchio di roccia che secondo i ciechi doveva essere
il tetto del mondo.
Erano passate quattordici generazioni dall’ultimo uomo
vedente, allontanatosi dal villaggio per cercare un antidoto che curasse lo
strano male che aveva iniziato a colpire i suoi compaesani. Una maledizione
(non una malattia), a detta sua, una punizione divina per il loro rifiuto della
fede. Ma le sue ricerche furono vane, poiché proprio durante la sua escursione
avvenne il tremendo cataclisma che privò per sempre il villaggio di ogni
comunicazione con l’esterno.
La storia del paese dei ciechi diventa così leggenda. Ma
al medesimo tempo è la storia stessa del mondo a diventare leggenda per gli
abitanti del paese, finendo pian piano per scomparire. E’ inevitabile: se
scompare la vista è necessaria una rivoluzione delle scale d’importanza, delle
percezioni, delle tradizioni, delle credenze, della scienza e della filosofia,
che necessariamente devono rifondarsi su altri sensi, nel frattempo divenuti
sempre più acuti, perfetti. Un olfatto pari a quello di un cane e un udito in
grado di sentire un battito di cuore a 10 passi di distanza.
C’è una forte scossa Antropologica nel racconto, una rivoluzione
dello stesso concetto di primitivismo.
Nuñez, ripetendo tra sé e sé il detto “in terra di ciechi l’orbo di un occhio è re”, è inizialmente
eccitato dall’opportunità che gli si presenta: persuaso della sua superiorità
ha l’intento di educare, di mostrare loro il mondo da cui vieni con le sue
conoscenze (si dice di lui che fosse un montanaro che aveva visto il mondo, un
uomo intraprendente, un lettore dalla mente acuta e con il dono
dell’Osservazione), di “evolvere” gli abitanti di un paese che, per cause
fisiche e geografiche, dovevano inevitabilmente essere “arretrati” (una sorta
di “Occidentalizzazione”, in linea con la logica Ottocentesca).
Ma il nostro Nuñez non tarda molto a scoprire che in realtà per
loro il primitivo era proprio lui, considerato selvaggio, disturbato, inferiore
e involuto.
La popolazione mostra una certa chiusura, un rifiuto ad ascoltare
e confrontarsi con altre “visioni” del mondo.
Nuñez non si rassegna. Tenta in tutti i modi di rivelare l’utilità
(e l’esistenza!) della vista. Prova a descrivere il mondo attorno a lui,
cercando quasi di mostrare le sue dote di veggenza.
Nuñez fallisce. Non solo non gli credono, ma ciò a cui sono
interessati va al di là dei muri delle casa (senza finestre, ovviamente) e
l’occhio non può penetrare le barriere dei muri . Allora tenta con la forza, ma
“l’influenza corruttrice della città lo aveva raggiunto”: non poteva uccidere
un cieco. Fugge così per due giorni, umiliato, se ne resta solo a riflettere al
di fuori del muro che cingeva la città, per poi ritornare, umilmente
consapevole della sua unica possibilità: OMOLOGARSI a loro.
Ma lui era un eccentrico, un primitivo, fuori dalla MEDIA: doveva
essere “riequilibrato”.
E quando s’innamorò dell’unica donna che sembrava meno cieca (per
via delle palpebre meno infossate e dalla voce forte: non a caso era stata
emarginata) l’omologazione si spinge al suo limite massimo: per “guarire” deve
sottoporsi ad un intervento per la sottrazione degli occhi. [1]
Una settimana d’attesa prima dell’intervento, amore contro vista.
è possibile dimenticare le proprie certezze? E’ possibile
guardare oltre o, al contrario, non guardare? [2]
Nuñez decise di andarsene, osservando per un ultima volta tutte le
meravigliose bellezze che lo circondavano e che la vista gli permetteva di
godere.
Scelse le stelle, scelse le sue certezze, la sua scienza, la sua Città ‘splendente
di giorno e mistero LUMINOSO di notte’.
E a confronto il mondo dei ciechi, e il suo amore, gli parvero
solo un pozzo di peccato senza fondo.
[1] Trovo vi
sia una similitudine con le “guarigioni” della frenologia in voga a quel tempo:
sottrarre gli stimoli che ci rendono “malati” per essere educati al fine di
colmare i “difetti”.
[2] Cfr. FLATLANDIA,
E. A. Abbott.
[3] Non è un caso che le stelle siano ripetutamente nominate
durante la narrazione, visto il boom dell’astronomia in quegli anni e
l’interesse che lo stesso Wells dimostra avere in altri suoi scritti.
2009
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